La verità di Massimo Carlotto

Una vita come poche quella di Massimo Carlotto. Da ragazzo ha girato il mondo, anche se non voleva. Ha patito l’ingiustizia di una condanna per un omicidio che non aveva commesso. E’ fuggito dall’Italia, dalla sua città, Padova. Parigi, poi Centro America. Una esistenza impossibile. Dopo aver visto amici morire da esuli e da fuggiasco aver rischiato di finire la sua stessa vita è tornato, sconfitto. Davanti a lui, un decennio da vivere in galera.

L’incubo è continuato in un vortice di processi sbagliati, di una galera che la sua testa non poteva accettare, di una mobilitazione senza precedenti. E alla fine, di una Grazia presidenziale che ha cancellato la condanna e l’infamia. Poi, ricominciare daccapo.

Qualche anno fa Massimo Carlotto, che nel frattempo si è scoperto scrittore, si è fermato a Cagliari. Abbastanza lontano dal mondo per poter vivere una vita normale, abbastanza vicino al mondo per poter continuare a lottare. Come ha scelto lui, con le parole e con le idee. Una casa sul mare, la donna «giusta», un bel lavoro. Scrive romanzi dove alla fine vincono sempre i buoni, e storie vere dove i buoni hanno già perso in partenza. Le sue ultime opere sono Il Corriere colombiano, è un noir ambientato nel mondo crimimale del Nord Est, ed Arrivederci amore, ciao, costruito sulla questione del terrorismo.

Lo pubblica come al solito l’editrice E/o Ci vediamo in una libreria del centro, parliamo seduti in mezzo ai libri per l’infanzia, tra battellini a vapore ed una antologia di Tex. Surreale ma bello. Carlotto è un tipo alla mano. Alto, imponente, un faccione buono illuminato dagli occhi chiari. Un non-sardo in quanto tale. Veste informale: Jeans, scarpe vecchie, camicia rimboccata e pull. Parla poco, ma quando lo fa butta fuori macigni fatti di parole. Pensieri inquieti.

Carlotto, perché Cagliari?

«Perché Cagliari è un posto magico. Non è una questione di retorica. Per uno come me che di lavoro fa lo scrittore è il luogo ideale per produrre. Prima di tutto perché è una città estremamente vivibile, assolutamente lontana dai problemi delle metropoli. E’ un luogo-non luogo. Mi colpiscono i tagli di luce che ti investono mentre cammini per Castello, la tranquillità di certi tramonti. E’ un posto che sembra fatto a posta per lavorare E non sono il solo a pensarlo. Un mio carissimo amico scrittore, Stefano Tassinari, ha intenzione di trasferirsi qui per finire un libro. E cosi pure un altro gruppo di scrittori bolognesi. Insomma, si sta spargendo la voce»

Questa città non è solo fatta di tramonti e tagli di luce tuttavia. Cagliari è anche Sant’Elia, Is Mirrionis, Pirri, San Michele...

«E’ la condanna di tutte le grandi città. Le periferie degradate ci sono, certo. Ma tutto sommato, pensando ai livelli di invivibilità che si vedono nel resto d’Italia, Cagliari rimane un paradiso. Qui non si è visto quello che ad esempio nel Nord-est è già da anni una realtà: l’ingresso in forze delle grosse organizzazioni criminali internazionali, che controllano il flusso di traffici di droga, immigrazione clandestina, prostituzione e armi. Con la corruzione all’interno delle forze dell’ordine sempre maggiore. E’ questa oggi la vera frontiera della criminalità organizzata, ancora una volta legata a doppio filo con l’alta finanza europea. Cagliari e la Sardegna non sono ancora dentro al meccanismo, ma ci sono tutte le condizioni per entrarci».

In che senso?

«Due fattori: il posto e la gente. La Sardegna è un isola, perfettamente in mezzo al Mediterraneo, con delle potenzialità economiche immense collegate allo sviluppo turistico. Ci sono tutte le condizioni perché diventi la lavatrice d’Europa. Attraverso gli investimenti nel settore turistico (l’edilizia, gli alberghi etc.) c’è la possibilità per le organizzazioni criminali di ripulire i soldi dei mercati illeciti».

Il riciclaggio di denaro c’è sempre stato. Ma mai sistematico. Per fare questo ci vuole la connivenza di centinaia di persone. E la storia ha dimostrato che in Sardegna la mafia non attecchisce.

«Siamo di fronte ad una mafia diversa da quella di tipo siciliano, che si muove al di fuori da quegli schemi. Per il suo carattere internazionale deve muoversi attraverso canali finanziari piuttosto che criminali (nel senso tradizionale del termine). Ed a Cagliari, in Sardegna, possono trovare la manovalanza ideale. Una intera fascia di piccola borghesia, rampante e senza scrupoli, senza capacità imprenditoriali, ma comunque disposta a fare da tramite per operazioni illecite di questo tipo».

La criminalità in Sardegna tuttavia, specie nelle aree dell’interno, è già una realtà che si conosce bene.

«Nulla a che vedere con quella in arrivo. I fenomeni che si possono trovare nel nuorese e nell’Ogliastra sono radicati nel tempo e nei luoghi. Per debellarli ci vorrebbe una lunga azione sociale a tutto campo. La nuova rivoluzione criminale viaggia su un altro binario. La velocità è quella di internet».

Ci sono segnali visibili di questa tendenza?

«Basta sentire che ogni tanto salta fuori la proposta di aprire dei Casinò in Sardegna. Le case da gioco sono i luoghi storicamente deputati alla ‘pulitura’ dei soldi sporchi».

E’ solo una questione di alta finanza, o c’entra anche la politica?

«Questo è un altro problema. Certamente occorre l’avvallo politico. E in questo purtroppo la sinistra parte molto svantaggiata: è in piena crisi, fa molta fatica a ragionare. La destra invece è velocissima».

Parli da uomo di sinistra.

«Certo. Per me la distinzione ha ancora un senso. Sono convinto che un governo di destra possa arrecare allo Stato danni enormi».

Un attimo. Per te la sinistra cos’è? Governi di sinistra hanno adottato politiche scolastiche tutt’altro che progressiste. Alla Regione Sardegna una governo di sinistra ha fatto macelli. La divisione, con che segno la facciamo?

«Ovviamente la sinistra di cui faccio parte non è quella di cui parlavi. La sinistra oggi è un grande fritto misto, è vero. Ma non possiamo dimenticarci qual’è il punto da cui partiamo. L’attenzione verso il sociale, verso la giustizia, verso l’impegno concreto e quotidiano nel territorio. Riferimenti? Personalmente posso dire di sentirmi zapatista, oggi che nel centroamerica si sceglie finalmente di abbandonare la lotta terroristica, Per costruire una comunità che si autodetermina, che usa la violenza solo come strumento di difesa».

Cuba?

«Si anche Cuba. Ci sono stato, e devo dire che la formula ‘socialismo e cha cha cha’ funziona. Ospedali, scuole, servizi: per il Centro america è un paradiso».

Un paradiso senza democrazia.

«Si, ma dove almeno uno come me ha potuto incontrare ed intervistare gli opposi di Castro».

Ripeto la domanda: cosa ci fa Massimo Carlotto a Cagliari? Una città bella, si, ma cosi lontana dal tuo mondo.

«L’ho già detto. Per Cagliari è la mia isola vivere e per scrivere. Io non sento di non avere una ‘mia’ città di appartenenza, se è questo che intendi. Il mio luogo è la mia generazione, quella dei ragazzi degli anni Settanta. Che ha fatto tante cazzate (io anche allora condannavo terrorismo e molte posizioni assurde), ma ha pagato troppo. Ed in fondo, fuori dal delirio ideologico, aveva ragione. Oggi viaggio molto e viaggiando raccolgo le storie per i miei libri. Certo, non potrei mai stare fisso a Cagliari. Qui la vita alla lunga ti addormenta il cervello. Ma è il posto dove ho la necessità di tornare per mettere tutto su carta».

La politica rimane in valigia? «Al contrario. Per me scrivere vuol dire fare politica. I miei libri sono il mio impegno sociale. C’è chi fa attività politica nel senso classico (ed io lo ammiro, perché oggi essere un politico serio è difficilissimo) e chi come me lo fa scrivendo». Scrivi editoriali sull’Unione. «Me l’hanno chiesto». Lo avresti fatto anche quando era di Grauso? «No». Domanda di rito, di questi tempi. Cosa ne pensi di Supertiscali? «Penso che su Tiscali c’è stata una manifesta censura politica per Bellaciao». Parliamo dei tuoi libri. Scrivi alternando romanzi noir a veri e propri libri reportage. Si parte sempre da fatti realmente accaduti. Il filo conduttore è la ricerca disperata di un principio: la verità. «Si. Ho raccontato sempre storie in cui cerco di svelare delle verità. Nell’ultimo, un romanzo ambientato dalle mie parti, parlo di una storia che farà saltare sulla sedia parecchie persone». Qualche anno fa hai ambientato un romanzo anche a Cagliari: Il mistero di Mangiabarche. E’ la storia di un investigatore che viene chiamato in città e si trova davanti nientemeno che il caso Manuella. «Una vicenda tremenda, che il mio libro credo abbia impedito venisse relegata al mondo dei ricordi cittadini. Tecnicamente ho inserito la fiction nell’impianto della storia vera. Il finale (Manuella, coinvolto in un grosso giro di droga sparisce in Sud America grazie ad un gruppo di servizi segreti deviati n.d.c.) - è inventato. Ma in molti in seguito mi hanno fatto notare poi delle coincidenze con la mia ricostruzione. C’è poi una parte meno seria legata a quel libro. Il mistero di Mangiabarche era stato tradotto in tedesco ed in Germania era andato tanto bene che una agenzia turistica aveva organizzato un viaggio ‘Nei luoghi di mangiabarche’. Il percorso dei luoghi che avevo raccontato nel libro (quindi sia la Sardegna che la Corsica) diventava un giro carlottiano».

Hai intenzione di far tornare i tuoi protagonisti da queste parti?

«Sto lavorando ad un personaggio tutto nuovo, che si muoverà a Cagliari ed in Sardegna. Sarà un ciclo di cinque racconti».

Sempre noir - verità? «Sempre».

Ai romanzi alterni il genere reportage, settore caduto in disuso da un bel po'. Hai raccontato la tua storia ne Il Fuggiasco, ma hai colpito soprattutto con le Irregolari di Buenos Aires. Un racconto sulla tragedia dei desapoarecidos argentini.

«Si, sono andato a scoprire un ramo della mia famiglia che non conoscevo e ho raccontato da dentro la realtà della persecuzione e di quello sterminio, che ha colpito duramente anche i Carlotto».

Ha vissuto il dramma della vita da latitante. Lo ha rivissuto ascoltando mille storie di gente rapita, torturata e uccisa barbaramente. Ha visto morire con i suoi occhi gli amici che si erano ribellati alle dittature sudamericane. Da dove gli viene lo stimolo a continuare la lotta? Che cosa trattiene Massimo Carlotto da voltare le spalle al dolore, lui che il suo tributo di sofferenza lo ha pagato in pieno? Una certezza, ovvia in chi ha letto un suo libro. Lo scrivere di Massimo Carlotto non è arte, tantomeno letteratura. Lui non è il nuovo Hemingway, come qualcuno ha detto. Questi scriveva per se, Carlotto scrive soprattutto per il lettore. I suoi libri fanno fiction con l’obiettivo di coinvolgerci in sentimenti, fatti e situazioni. Coinvolgerci a tal punto da creare in noi opinione. Ed in questo riescono abbastanza bene. Non nascono però per essere dei capolavori da conservare nella libreria buona. In una cosa Carlotto fa letteratura, e arte. Nel cercare continuamente in essa una propria intima rivincita. L’ossessione di trovare una giustizia è prima di tutto terapia soggettiva dell’autore. Cosi come nella tragedia greca il libro di Carlotto è nemesi di giustizia. Un’idea di giustizia che ci aiuta a vivere.

Francesco Piras