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Quest’anno la vendemmia in Sardegna è andata bene,
con una produzione di circa 700.000 ettolitri di vino ed un incremento
rispetto alla scorsa annata nell’ordine del 10%; oltretutto, l’andamento
climatico favorevole ha limitato la diffusione di malattie e parassiti
nella gran parte delle aree viticole, creando le condizioni migliori per
una produzione che anche qualitativamente, sarà di ottimo livello.
Si tratta certo di dati confortanti ma che non valgono a diradare le nubi
che si addensano sul comparto vitivinicolo, che nel contesto dell’agricoltura
isolana, è forse quello in cui si registrano le contraddizioni e
i problemi maggiori.
La Sardegna è terra ad elevata vocazione viticola, dove uno dei climi più adatti a questa coltura si accompagna ad una tradizione antica nella produzione del vino, eppure anche in questo campo, dopo i fasti del passato, siamo oggi grandi importatori. Ogni anno entrano in Sardegna circa 30.000 ettolitri di vino imbottigliato ma anche sfuso e se è vero che esportiamo una buona parte di quel poco che produciamo si tratta comunque di una magra consolazione se si pensa che nel giro di dieci anni - dal 1986 al 1996 - la produzione Sarda di vino è passata da due milioni e mezzo a poco più di 600.000 ettolitri. Un crollo verticale spaventoso che ha reso assolutamente marginale il settore vitivinicolo, un tempo zoccolo duro dell’economia Sarda. Le ragioni di questo fenomeno sono complesse e in gran parte riconducibili a scelte e strategie pensate lontano dalla Sardegna, seppur con la complicità di amministrazioni regionali imbelli e senza spina dorsale. Tutto inizia negli anni ’80 quando la CEE decide di far fronte all’esubero nella produzione comunitaria di vino, rendendo obbligatorio l’invio alla distillazione di una parte del prodotto e, soprattutto, offrendo premi per l’estirpazione dei vigneti. La Regione ha assistito passivamente e rinunciato al suo ruolo di programmazione e di guida, lasciando che insieme ai vigneti vecchi e antieconomici venissero distrutti anche impianti moderni, che essa stessa aveva riccamente finanziato. E’ stato così che in sedici anni la Sardegna ha perso 22.000 ettari di vigneti, spesso lasciando posto al deserto economico e paesaggistico. Sono lontani i tempi in cui la vendemmia mobilitava per settimane interi paesi e fuori dai cancelli delle Cantine Sociali i trattori facevano la fila per scaricare. Gli impianti cooperativi per la lavorazione delle uve erano 40 nel 1978 e sono oggi appena 23, costretti a lavorare al 10-20% della loro capacità produttiva. La Cantina Sociale più grande è quella di Monserrato, che potrebbe lavorare 250.000 ettolitri di vino l’anno ma deve accontentarsi di 33.000, poi di seguito vengono le cantine di Dolianova, di S.Antioco, di Jerzu e così via. Fino a quindici anni fa il prodotto delle vigne Sarde era interamente destinato alle Cantine Sociali dell’isola, che raramente imbottigliavano vini di pregio adeguatamente valorizzati sul mercato e anzi spesso si accontentavano di vendere il vino sfuso alle cantine del Nord Italia che lo usavano per "tagliare" il loro prodotto, povero di colore e di grado alcolico. Oggi è tutto diverso e in alcuni casi -soprattutto nel Sulcis- si imbottiglia vino che viene da fuori, l’uva infatti scarseggia e a contendersela -a colpi di inserzioni sui giornali- ci sono anche molte aziende private. A parte la "Sella e Mosca", autentico colosso del settore, particolarmente dinamiche e competitive sono le "Cantine Argiolas" di Serdiana, la "Meloni Vini" di Selargius, "Picciau" a Monserrato e "Mancini" a Olbia. I vini che si producono oggi in Sardegna sono in gran parte DOC e comunque sempre di eccellente qualità. Affianco ai vitigni tradizionali più conosciuti, come il Cannonau, il Nuragus, il Vermentino, il Monica, il Carignano e a quelli che senza meritarlo rischiano l’oblio, come il Girò e il Nasco, si vanno diffondendo il Pinot, lo Chardonnay e il Sauvignon, particolarmente adatti alla produzione di vini freschi, leggeri e frizzanti che oggi sono i più richiesti dal mercato. Nel complesso una straordinaria varietà, altrove sconosciuta, che offre a chi produce vino in Sardegna un vantaggio importante, a patto di saper gestire questa ricchezza sul piano commerciale. La tendenza da contrastare e quella alla proliferazione di una selva di etichette che non contribuisce certo a rendere il vino Sardo riconoscibile sul mercato. Se si rinunciasse invece ad un certo orgoglio di campanile, per accorpare almeno un po’ le produzioni, si riuscirebbe ad investire adeguatamente nella tutela e nella promozione del prodotto e forse ad inaugurare nuovi canali di vendita. Sul piano commerciale le maggiori soddisfazioni per i produttori Sardi non provengono tanto dall’italia quanto dalle esportazioni verso gli Stati Uniti, la Francia, l’Inghilterra, dove il nostro vino è apprezzato e richiesto. Chi poi ha puntato sul "prodotto biologico" (come Meloni di Selargius) vende a prezzi molto remunerativi in Germania, dove più che altrove i prodotti alimentari Sardi vengono associati all’immagine di una terra pulita, baciata dal sole e carezzata dal vento che profuma di lentischio. di Alberto Cicalò |