SULLA BESTEMMIA

Poche norme in un ordinamento giuridico permettono di valutare e apprezzare il livello dei rapporti fra Stato e Chiesa e insieme la reciproca permeabilità dei medesimi. Le fattispecie penali in tema di vilipendio alla religione di Stato sono senz'altro tra queste "poche". Una specie di indice che attraverso la sua evoluzione consente di seguire la linea di confine tra potere temporale e potere spirituale. Quanto mai mobile, questo confine è destinato ad arretrare a favore di uno o dell'altro in funzione dei relativi rapporti di forza. La storia che contraddistingue questo reato è particolarmente istruttiva e non solo per chi si occupa di diritto. E' una parte della storia di noi tutti, è la sua eliminazione è di conseguenza un fatto (prima culturale che giuridico) che riguarda necessariamente tutti. Se si fa caso alla configurazione del delitto di bestemmia, a come questo cambi tra la codificazione penale liberale di fine ottocento e il codice Rocco del 1930, non possono non saltare agli occhi alcuni elementi illuminanti. Il codice Zanardelli entrato in vigore nel 1889, prevedeva tra i delitti contro la libertà, una serie di norme destinate a garantire la libertà dei culti. In questa sede gli artt. 140-144 si incaricavano di reprimere qualunque comportamento che avesse vilipeso uno dei culti ammessi o coloro che lo praticavano. E' bene notare come le fattispecie riportate dal codice Zanardelli, fossero destinate in maniera particolare a garantire la libertà di culto -di uno di culti ammessi- come espressione della più ampia libertà dell'individuo. Il reato non proteggeva cioè la religione come tale, in quanto sistema di valori e di regole etiche dato, ma in quanto manifestazione della personalità individuale. Al centro della tutela penale è dunque l'individuo, come per altro nella stragrande maggioranza delle previsioni del codice del 1889. Una impostazione di questo genere è da far risalire alla scelta del legislatore di allora di fare propri i principi cardine del liberalismo penale: la sanzione penale deve rispondere a principi di utilità e proporzione oltre che alla necessità di entrare in funzione solo quando vi sia un offesa rilevante. Tale non è quella alla religione, salvo che questa non si tramuti in una lesione del diritto di libertà del singolo individuo. E' una chiara ap-plicazione del principio di frammentarietà del diritto penale secondo il quale non tutto ciò che è moralmente riprovevole è anche penalmente rilevante. Se questo è il panorama giuridico di fine ottocento e inizio secolo lo scenario è destinato a cambiare bruscamente con l'avvento del regime fascista. Il reato di vilipendio a uno dei culti ammessi si trasforma in vilipendio alla religione di Stato, delitto questo inserito emblematicamente tra i delitti contro beni superindividuali quali fede pubblica, amministrazione della giustizia e via discorrendo. Il senso dell'inversione di rotta è immediatamente percepibile: la religione viene tutelata in quanto rappresenta un bene a se, un sistema di valori cui lo Stato fascista aderisce e rispetto al quale organizza una adeguata protezione. Nessun riferimento agli altri culti che escono di scena, travolti dalla logica dell'asse uno Stato una Chiesa. Al posto dell'individuo si pone questa volta lo Stato in una delle sue diverse estrinsecazioni. Il regime di Mussolini chiude i conti con la stagione liberale in questo settore molto più drasticamente che in altri: non c'è spazio nel nuovo stato per religioni diverse non c'è spazio per idee diverse da quelle del regime. Una anticipazione tragica per chi seppe allora coglierla, delle leggi razziali e del periodo più duro di repressione. Inizia e trova la sua massima espressione qui quel principio di astrazione del bene giuridico tutelato che contraddistingue in genere tutti i regimi totalitari, a qualunque ideologia sostengano di appartenere. Il diritto penale smette di avere una funzione di selezione di comportamenti concretamente offensivi di alcunchè e finisce per diventare uno strumento di repressione pura al servizion del regime di turno. Si smaterializza il bene perché così è più semplice e più facile scegliere chi perseguire e quando a seconda delle opportunità politiche. La norma finisce per tuttelare se stessa o meglio per sanzionare un mero dovere di obbedienza dei cittadini verso lo Stato che ormai è uno stato etico. Chiusa l'esperienza fascista l'art. 402 resta al suo posto per cinquanta anni, testimone di un passato scomodo eppure difficile da cancellare. Più volte la Corte Costituzionale è stata chiamata a pronunciarsi in argomento scegliendo sempre la strada delle interpretazioni adeguatrici, cercando di dare alla norma il significato che aveva sotto il codice del 1889, ma molte, troppe, erano le reliquie che impedivano questo sforzo. Settanta anni dopo la sua introduzione il delitto di bestemmia appariva ormai come un "arnese impresentabile". Non è possibile che in uno Stato laico si persegua penalmente per un delitto di questo tipo ma, forse, c'è ancora posto per una sanzione amministrativa. Così almeno è dato dedurre dal fatto che un legislatore decisamente più timido della Corte, ha lasciato sopravvivere ancorchè depenalizzato, il fatto di chi "pubblicamente bestemmia, con invettive o parole oltraggiose, contro la Divinità o i Simboli o le Persone venerati nella religione di Stato" (art.724 cp). Per questo fatto, ancora oggi, è applicabile la sanzione amministrativa pecuniaria da lire 100.000 a 600.000. Un fatto questo che oscura in qualche modo la portata storica della sentenza della Corte.

Rosanna Mura

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